Abbiamo seguito il filo rosso incontrato a novembre a The Others: una trama accesa nell’ordito di scale e sbarre dell’ex carcere Le Nuove, tesa nel percorso espositivo a intrecciarsi con opere, artisti, visitatori, fino alla cella della galleria d’arte BI-BOx, dove la fibra lasciava il segno, disegnando il profilo di un planisfero sensibile al mutamento, o riversandosi come un’emorragia dalle crepe di un mappamondo da calcio.
L’esperienza dell’incontro è centrale nel lavoro di Gigi Piana, artista che crea relazione: con l’ambiente, con i materiali, con altri autori, con lo spettatore.
E con le discipline: dalla performance al video, dall’arte visiva al teatro, dall’opera scolpita a quella site specific.
“I miei ultimi lavori — ci racconta Gigi, che abbiamo intervistato alla vigilia dell’esposizione a SetUp Art Fair, la fiera d’arte indipendente incentrata sugli artisti emergenti che si svolgerà a Bologna dal 23 al 26 gennaio — hanno a che fare con l’intreccio, che declino secondo differenti situazioni.”
“In disgregazione-planisfero compongo una tessitura attraverso un procedimento artigianale minuzioso: intreccio strisce di pvc trasparente, in trama e in ordito, sul tessuto; una volta terminato, disegno con una linea rossa il profilo dei continenti, dopodiché sfilo una parte della trama e dell’ordito, delineando una disgregazione. Questa superficie comincia ad avere delle maglie ampie, i confini cominciano a spostarsi, e questo rappresenta l’attualità in cui il tessuto sociale si sta sfilando. Ho l’abitudine di non lavorare mai in termini negativi: mi piace accentuare quella che è una crisi ma anche riferirmi ad una possibilità di prospettiva. Lo sfilacciamento dei tessuti è un movimento. Lo spettatore può anche spostare la trama e l’ordito, e il disegno futuro sarà fatto da queste strisce che andranno in una nuova tela, a disegnare nuovi confini e a ricreare un nuovo tessuto, quindi la disgregazione diventa una riaggregazione.”
“Per ricerca di identità sto lavorando sui volti delle persone. Più che mai mi interessa la percezione della realtà. Intessendo in trama ed ordito due visi, o meglio lo stesso viso riportato in due dimensioni, si genera, nel profilo della persona intento a trovare un suo collocamento, uno scarto. Sotto il profilo estetico, questi ritratti visti da lontano sembrano quasi pixelati. Nel mio impiego dei materiali c’è sempre un richiamo simbolico/strutturale: la rete e il tessuto non sono solamente degli incroci, ma sono degli incroci tra le persone, rappresentano i tessuti sociali ma al contempo la rete on line. Chi siamo effettivamente? Colui che è sul profilo del proprio social network, o colui che parla al cellulare, o una presenza fisica, ma siamo sempre solo una parte, quindi non esiste una figura definita sulla nostra identità, noi per primi non siamo in grado di dare una definizione di noi stessi.”
Le opere basate sull’intreccio, che stanno suscitando l’interesse di pubblico e collezionisti, sono solo la parte più recente della produzione ventennale di Gigi Piana.
Un’attività multidisciplinare intensa e coltivata a contatto con le realtà artistiche radicate nel biellese (territorio d’origine che per Gigi è sinonimo di identità e di affetto): la Fondazione Pistoletto e la Compagnia Stalker Teatro, con cui lavora stabilmente da 15 anni.
La possibilità di conoscere, coinvolgersi, elaborare, trasformarsi. A bottega dal maestro dell’arte povera fino a diventarne assistente nella Biennale del 2001, lavorando sui materiali specchianti e sulla Trasformazione Sociale Responsabile. Realizzando un teatro dedito alla sperimentazione e alla partecipazione diretta dello spettatore. Dialogando con altri artisti nati al di fuori delle gallerie, come Gec Art, Opiemme, Alessandra Maio. A fianco di Luciano Pivotto, che è stato maestro d’arte e di vita, di umiltà e pazienza. Mettendo in scena coproduzioni teatrali con Eugenio Barba, Gabriella Maiorino, Akademia Ruchu, Ex Nihilo. Componendo installazioni video nei luoghi della memoria e azioni site specific in cui lo spettatore entra in gioco su cultura, economia, comunità.
Secondo una precisa idea sul rapporto tra arte e reale:
“La relazione con la società è un obbligo per la cultura contemporanea, non è più l’arte autoreferenziale dei musei, degli intellettuali, ma deve relazionarsi. Quando faccio performance mi relaziono con fasce deboli: lavoro con la malattia psichica, o con i detenuti dei carceri. Questa opportunità di scambio è una crescita personale ineguagliabile, e io trovo senso a fare arte solo in questi casi. Considerare l’oggetto isolato nella sua bellezza mi interessa relativamente. Anche quando vendo un oggetto piccolo, è la relazione con la persona che ha comprato il mio lavoro e che lo vede, ad essere fondamentale e a continuare nel tempo.”
La responsabilità sociale passa per la regia di Manichini, videoclip della band LoMé — montato da Ewa Gleisner e Andrea Vialardi — una visione lucida e scarna che nel 2013 ha vinto il contest nazionale MusicaControLeMafie ed il premio speciale assegnato dal Mei.
Continuando a sperimentare e ad evolvere.
“L’artista per me non è un creatore: è un trasformatore e quindi si muove ad un livello più umile ma più reale. Io elaboro e porto avanti i discorsi che ha fatto qualcun altro, non creo niente dal nulla. Se non avessi avuto dei buoni maestri, non potrei insegnare nulla.”
Altre texture d’autore qui.
arte arte figurativa arte sociale bi.box biella galleria gigi piana intervista luciano pivotto manichini opiemme performance pistoletto pittura setup art fair site specific stalker teatro the others videoclip