Lo diceva già Aristotele, un paio di millenni fa: “L’uomo è un animale sociale”. Non c’è da stupirsi, allora, del successo che nell’ultimo decennio hanno avuto gli spazi sociali online: c’è chi vede in questo solo esibizionismo spinto al limite, esasperazione di un offline insoddisfacente, carenze, mancanze, insufficienti stimoli “reali”. Ma a voler credere al filosofo greco, che qualche cosa giusta deve averla detta, non è che l’attualizzazione di un bisogno che è nella natura umana, come dire: cambiano i mezzi, non le necessità.
Finiamo così col celebrare e scomporre la vita su pagine Facebook, immortalarla su Instagram e commentarla su Twitter – per parlare di tre dei social network a cui la maggior parte di noi è iscritto; condividiamo i momenti fondamentali per trovare affermazione o conforto. I momenti fondamentali delle nostre vite, e quindi anche la morte.
Ma come entra la morte nell’online?
Il caso di Brittany Maynard è stato solo uno degli ultimi a rimbalzare sui social, alimentando un dibattito sociale difficile e accesissimo sull’eutanasia. Vi ricordate di lei? Brittany è la 29enne americana che, sapendo di essere condannata da una malattia terminale, ha deciso di andarsene nel modo per lei più dignitoso, decidendo la data della sua morte e tenendo in costante aggiornamento la sua pagina Facebook negli ultimi mesi della sua vita.
Il suo ultimo post ha commosso il mondo: «Addio a tutti i miei cari amici e alla mia famiglia, che amo. Oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità a fronte della mia malattia terminale, di questo terribile cancro al cervello che si è preso così tanto di me, e che si sarebbe preso ancora di più. Il mondo è un posto bellissimo, i viaggi sono stati i miei più grandi maestri, i miei amici e la mia gente sono i più generosi. Ho tante persone attorno a me persino adesso, mentre scrivo… Addio mondo. Diffondete energie positive. Fate del bene agli altri!». Migliaia sono stati i tweet che parlando del suo caso hanno discusso di eutanasia e diritti; il suo ultimo video è stato visto 5 milioni di volte:
In questo caso la morte del singolo, da faccenda privata è divenuta mondiale; ma c’è qualcuno che possa parlare di esibizionismo fine a se stesso?
Vediamo un altro caso: quando si parla della morte di grandi star e personaggi pubblici, come cambiano le cose? Se l’importanza della solidarietà collettiva su cui il sociologo Emile Durkheim ha a lungo riflettuto vale certamente in moltissime circostanze – anche quando passa per i social – c’è chi potrebbe giurare il contrario. La figlia di Robin Williams, Zelda Rae, aveva scelto di condividere con i follower il suo dolore per la perdita del padre:
— Zelda Williams (@zeldawilliams) 12 Agosto 2014
Alla notizia del suicidio, la rete ha saputo però essere impietosa offendendo, giudicando e facendo pesare le scelte del genitore su di lei. La reazione a tutto questo è stata, per Zelda, quella di sparire momentaneamente da Twitter e Instagram. Si è attivato allora il meccanismo inverso: la consolazione sociale che si sperava di ottenere non solo non c’è stata, ma è diventata una condanna per cui smettere di esistere in rete è diventata una necessità altrettanto forte per l’autoconservazione, l’unico modo per non sentirsi sopraffatti nella vita offline.
Ma quanto si può spostare il limite? Tralasciando i casi di estremismo annunciati via social, come quello di Anders Breivik per la strage di Oslo, sono state unaninamente condannate le scelte macabre – quasi sempre di giovanissimi, ma a volte anche di infermiere e professionisti – di postare selfie con il morto: una moda, quella sì, che di giustificazioni non ne ha molte. Anzi, proprio nessuna.
Qui si torna a un problema annoso, che vale tanto per la vita online che per quella offline: perché, se è vero che i social offrono nuove modalità di costruzione del mondo, quel mondo si costruisce prima di tutto nella real life di tutti i giorni. L’educazione, anche e soprattutto a temi sensibili e umanamente condivisi, è qualcosa che si impara prima della creazione di un account Twitter. Più che indignarsi per quello che si trova in Rete, bisognerebbe allora preoccuparsi di quello che tramite i dispositivi tecnologici, le app e i social network facciamo emergere.
“Internet non ci sottrae la nostra umanità: la rispecchia”, così Josh Rose.
Come dire che non basta non parlarne online per rimuovere il problema, altrimenti dovremo arrenderci al fatto che solo chi è connesso è vivo.
E se la vita è in rete, di conseguenza lo sarà anche la morte. Per i miracoli ci stiamo attrezzando.
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